Esiste una questione preliminare, originaria,
ineludibile, che va posta prima di ogni argomento pro o contro
l’immigrazione: in casa nostra vengono prima i nostri.
In altre nazioni, da tempo si discute della possibilità di una legge
per la preferenza nazionale. A inventare il termine fu, nel
1985, l’intellettuale e di lì a qualche anno eurodeputato del
Front 1ational Jean-Yves
Le Gallou.
Oggi Marine Le Pen ha
ancora il concetto nel programma del partito, sia pur declinandolo
come “priorità nazionale”, formula ritenuta meno traumatica.
Ora, una iniziativa per la
preferenza nazionale deve partire da alcuni punti molto semplici. Per
esempio l’inserimento della cittadinanza italiana come
parametro che determini un punteggio aggiuntivo per l’ingresso in
graduatoria relativo all’assegnazione di alloggi popolari.
Oppure il divieto di indire bandi e concorsi in cui la condizione di
immigrato fornisca punteggi supplementari o garantisca agevolazioni
di qualsiasi tipo. O ancora, servirebbe una revisione della legge
sulla liberalizzazione degli orari dei negozi, che
ha consentito
negozi di immigrati di attuare concorrenza sleale nei confronti dei
commercianti italiani senza alcun riguardo per la qualità e le
basilari regole igienico-sanitarie. Bisognerebbe poi abrogare quelle
leggi che hanno stravolto impianti legislativi ben più ponderati.
La legge Turco-Napolitano del 1998, per esempio, aboliva
il vincolo di reciprocità che prevedeva la possibilità di svolgere
in Italia un’attività imprenditoriale solo ai cittadini stranieri
provenienti dai Paesi che concedevano tale opportunità anche
all’immigrato italiano.
E perché non prevedere la
possibilità, da parte della questura, di rifiutare il rilascio del
permesso di soggiorno per motivi di lavoro qualora sia accertata
l’iscrizione agli uffici di collocamento di italiani disoccupati
che abbiano caratteristiche idonee a quell’impiego? Lo ha già
stabilito la circolare Guéant emessa dal ministero
dell’Interno francese il 31 maggio 2011. Quella circolare fu poi
abrogata, ma il dispositivo generale è restato in piedi: ancora oggi
un’impresa francese che voglia assumere un extra-comunitario deve
provare di aver fatto ricerche infruttuose sul mercato del lavoro
nazionale.
Ci sono poi sentenze che
persino in questa Ue vanno nella direzione giusta ma che vengono poi
fatte applicare ad alcuni sì e ad altri no, secondo la legge dei
figli e figliastri che è dominante a livello comunitario e che, sia
detto per inciso, è uno dei motivi per cui l’Unione europea non
funziona. Pensiamo alla sentenza della Corte di giustizia
europea nella causa C-333/13 dell’11 novembre 2014, secondo la
quale nella Ue “uno Stato membro deve avere la possibilità di
negare le prestazioni sociali ai cittadini dell’Unione
economicamente inattivi che esercitino la loro libertà di
circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto
sociale di un altro Stato membro”. Lo straniero, anche comunitario,
che non lavora né cerca un impiego deve poter essere espulso. Va
bene l’accoglienza, va bene le ragioni della solidarietà. Ma se
poi non hai lavoro e non lo cerchi, se ti adagi in un’esistenza di
parassitismo, nel migliore dei casi, e di lavori fuorilegge, nel
peggiore, te ne torni a casa tua. In Germania già lo fanno, ma a noi
non è permesso. Ce lo chiede l’Europa, dicono, di tenere chiunque.
La stessa Europa che permette ad altri di cacciare via chi non si
integra.
Tutto ciò è
razzista? Niente affatto. È comune buon senso. Nessuno di
noi farebbe l’elemosina a un clochard incrociato in un vicolo se si
trovasse nelle condizioni di stare per vedere in mezzo a una strada
la propria famiglia. Prima si sistema la propria casa, poi viene il
resto. E questo non perché alcune situazioni di disagio e di miseria
non suscitino universale commozione, ovunque accadano o chiunque le
subisca. È solo che ognuno di noi ha delle responsabilità dirette e
dei legami particolari. Non esistono gli altri in senso generico,
esistono quelli che il filosofo Charles Taylor chiama
“gli altri significativi”. Una geografia delle relazioni che non
può che andare per cerchi concentrici: prima vengono i miei figli,
poi i miei nipoti, poi i miei vicini, poi i miei concittadini, poi i
miei connazionali, poi chi fa parte della stessa grande civiltà e
così via. È tramite il particolare che noi accediamo
all’universale.
Poi va da sé che ci siano
molti non italiani migliori – per competenza o per qualità umane –
di tanti italiani, così come nella mia famiglia possono esserci
delle pessime persone mentre la famiglia Ahmed può essere piena di
persone del tutto stimabili. Esistono le eccezioni, e una prassi
intelligente, sia a livello individuale che collettivo, deve tenerne
conto. Ma il fatto di dare la priorità ai “miei”, fatti salvi i
casi estremi, non implica una gerarchizzazione delle persone e dei
popoli. Non si dice che prima debbano venire gli italiani perché gli
italiani sono “meglio”. È solo una questione di
responsabilità: lo Stato italiano deve occuparsi degli
italiani, così come io sono responsabile innanzitutto di mio
figlio e lo sono anche se il figlio del vicino è più bravo e più
buono. Ma quello è suo e questo è mio ed è di lui che devo
occuparmi, perché è di lui che devo rispondere.
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